Roma, 13 apr. (Adnkronos Salute) – “L’intelligenza artificiale (Ai) per la sanità digitale è un’opportunità, una risorsa straordinaria, ma dobbiamo ancora capirla in modo approfondito e studiare come addestrare le macchine. Il punto è che studiare le applicazioni in medicina delle tecnologie digitali è qualcosa di nuovo per l’intera storia dell’uomo. Big tech come Google e Facebook, ma anche Amazon, continuano a investire su tentativi di creare sistemi sanitari totalmente virtuali per gestire la salute di milioni di persone in molte parti del mondo, ma ad oggi hanno sempre fallito. Ciò probabilmente perché la sanità è un sistema a sé, che vive di regole e modalità di interazione tra persone del tutto proprie, e poi siamo solo all’inizio della rivoluzione digitale”. Così Francesco Gabrielli, direttore del Centro nazionale per la telemedicina e le nuove tecnologie assistenziali dell’Istituto superiore di sanità, in un editoriale pubblicato su Alleati per la Salute (www.alleatiperlasalute.it), il portale dedicato all’informazione medico-scientifica realizzato da Novartis, fa il punto sull’evoluzione digitale in sanità.
“In Italia, fino al 2020 – scrive Gabrielli – a parlare di telemedicina eravamo in pochi: a livello pratico istituzionale, tutto è partito nel 2017. Abbiamo fatto un salto rapidissimo con la pandemia Covid-19 e tale salto di per sé è un bene, ma la scienza procede per successive acquisizioni di prove. Ci sono moltissimi lavori scientifici in corso, decine stanno indagando come funzionano le reti neurali, struttura alla base dell’intelligenza artificiale, in grado di apprendere in base ai dati che riceve. Altre ricerche sono in corso in alcune applicazioni cliniche. Ci vuole del tempo. Tutti siamo convinti che l’Ai sia una straordinaria risorsa, ma dobbiamo imparare a conoscerla e a usarla. Dobbiamo considerare che non è mai successo prima, nella storia, che in così tanti possano avere così tanti dati di una sola persona. E’ il cambiamento di paradigma nel modo di fare medicina”.
Amazon, Facebook e Google, evidenzia l’esperto, “da anni stanno investendo nella medicina, ma i risultati sono deludenti. L’ambito sanitario è un settore produttivo diverso, ha regole sue, ha sistemi di evoluzione organizzativa e di accoglimento delle nuove tecnologie (technology transfert) diversi dagli altri comparti perché ha a che fare con la salute, con la condizione di malattia, con la sofferenza, con la paura e il coraggio, con le relazioni umane, con la natura, con le molte cose che ancora non sappiamo di noi stessi”. Precisa Gabrielli: “Non succederà mai che un professionista sanitario usi una tecnologia che non abbia validazione scientifica, perché il rischio è troppo alto: è inaccettabile per tutti che succeda qualcosa al paziente senza capirne il motivo. La tecnologia in medicina è tutta un’altra cosa rispetto a quello che è moda, tendenza high tech. Un conto sono gli strumenti diagnostici e un altro sono i sensori posti in dispositivi di moda indossabili (wearable), il contapassi o lo smart watch che fa l’elettrocardiogramma a una derivazione (che può essere usato solo per pochissimi scopi di prevenzione e controllo, ma non correntemente per la diagnosi)”.
In questo momento, il Centro nazionale per la telemedicina dell’Iss si sta attrezzando per creare dei metodi di sperimentazione clinica dell’applicazione dell’Ai. “La cosa più importante – spiega Gabrielli – è che dobbiamo, prima di tutto, definire una metodologia corretta per sperimentare l’intelligenza artificiale”. In medicina, una delle “applicazioni più avanzate dell’intelligenza artificiale è nella diagnostica radiologica, come Tac e risonanza magnetica (Mri) – sottolinea l’esperto – dove alcuni risultati incoraggianti sono stati raggiunti. La maggior parte sono però esperienze preliminari che vanno ancora verificate sperimentalmente. Per esempio, nel caso dello studio sulla ‘FastMri’, realizzato da Meta (ex Facebook) e New York University sull’impiego dell’Ai nell’imaging della risonanza del ginocchio, sono stati raggiunti buoni risultati: ma sono riferibili ad una parte del corpo, come il ginocchio, che ha una conformazione anatomica molto ben definita e costante rispetto ad altre parti. Quindi, eventuali alterazioni sono più facilmente identificabili. Laddove invece è normale avere variazioni anatomiche, capire quali di queste siano da considerare fisiologiche e quali siano patologiche è un’altra cosa”.
“Sono abbastanza ottimista sul fatto che riusciremo a inserire l’Ai progressivamente nella pratica clinica – conclude Gabrielli – La cosa importante, in medicina, è non correre dietro alle mode. Ciò che è fattibile tecnologicamente non è detto che sia utile al paziente. All’atto pratico si deve capire se un’applicazione ha un senso. Alle volte ci sono soluzioni tecnologiche che non hanno significato, oppure altre il cui uso non fornisce i risultati sperati. Ad esempio, un sensore indossato che mi conta i passi in base agli urti dei piedi in terra, il cui impulso si trasmette nell’ossatura, può registrare dei passi inesistenti se transito in velocità con la bici sull’acciottolato”.
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