Roma, 29 mar. (Adnkronos Salute) – “Garantire uno screening neonatale per malattie che prima non lo avevano, come quelle metaboliche ereditarie, ha un impatto innegabile sulla vita dei pazienti: vuol dire essere presi in carico al momento giusto, con la certezza di protocolli che garantiscono il miglior sviluppo possibile, uno sviluppo sano al paziente”. Così Niko Costantino, Head Public Affairs Cometa Asmme – Associazione studio malattie metaboliche ereditarie, durante la presentazione del report dell’Istituto AstraRicerche con le esperienze di ‘best practice’ di due regioni – Veneto e Toscana – illustrato oggi nell’ambito della seconda edizione di ‘Raro chi trova’, iniziativa promossa da Takeda Italia con il patrocinio di Società italiana di pediatria (Sip), Associazione italiana Anderson-Fabry (Aiaf), Associazione italiana Gaucher (Aig), Associazione italiana mucopolisaccaridosi (Aimps) e appunto Cometa Asmme.
“Quando una malattia genetica non ha uno screening neonatale – rimarca Costantino – c’è un vuoto nella pianificazione della propria vita, una aleatorietà della propria condizione, l’impossibilità di fare piani a lungo termine”. “Nella malattia di Fabry – spiega Stefania Tobaldini, presidente Aiaf – il paziente sopravvive alla nascita, ma con una diagnosi neonatale si eviterebbe di peregrinare in modo inutile: sapendo cosa si ha, prima di tutto si cresce con consapevolezza e si possono programmare i controlli da fare. Se conosci la patologia, non la subisci, diventi paziente attivo e la puoi gestire dal punto di vista emotivo. Inoltre, si evitano visite superflue e si eseguono solo i controlli mirati: la diagnosi precoce rappresenta quindi un risparmio”. “Si ha inoltre la possibilità di iniziare le terapie non appena il medico lo ritiene necessario”.
Lo screening neonatale “porterebbe a innalzare l’aspettativa di vita, migliorare la qualità della vita e cambiare l’aspetto psicologico del paziente – sottolinea Tobaldini – Inoltre, lo screening, se positivo, permette di fare indagine familiare: identificare parenti stretti, zii, cugini o altri parenti che hanno difficoltà ad ottenere una diagnosi”.
“L’impatto della malattia di Gaucher – aggiunge Fernanda Torquati, presidente Aig – cambia molto in base al tipo: il tipo II è una forma neurologica, con aspettativa di vita molto ridotta (anche solo di pochi mesi), con una sofferenza terribile per il bambino e per i genitori. Il tipo I e quello III (che è una combinazione di I e II) possono essere completamente differenti da caso a caso: i bambini possono essere asintomatici, con una vita normale (vi sono pazienti che hanno studiato fino all’Università, si sono sposati, hanno figli), oppure avere forme gravi (magari con qualche ritardo cognitivo, o con forme più pesanti – fino all’invalidità al 100%)”. Senza diagnosi o “con diagnosi tardiva l’aspettativa di vita si riduce, anche di decenni – ammonisce Torquati – Ricevere una diagnosi permette anche di far screening familiare per intercettare altri familiari, che magari sono bambini e possono avere monitoraggio precoce”.
Infine, Flavio Bertoglio presidente Aimps: “L’impatto della sindrome di Hunter è drammatico. L’esperienza personale con mio figlio è stata devastante per noi e per lui. Le cose adesso stanno cambiando, è possibile diagnosticare alla nascita queste malattie, pensare a un trapianto di midollo o usare le cellule staminali emopoietiche”. Ma “senza la diagnosi neonatale non è facile capire – ammette – è vero che ci sono aspetti morfologici tipici (sopracciglia folte, collo corto, spalle con scapole ad ali di gallina, etc) ma è molto difficile che vengano rapidamente riconosciuti”. Alla notizia della diagnosi “si entra in un mondo parallelo. La vita cambia completamente. Smetti di pensare al domani, ti occupi dell’oggi. Lo screening neonatale per questa malattia non viene ancora fatto a livello nazionale, ma se viene fatto per un bambino si può arrivare ad avere l’assenza di disturbi o quasi, con tratti somatici normali e una vita normale (se non c’è una compromissione neurologica). Le Associazioni sono importanti per far capire ai pazienti e alle famiglie che non si è soli e per sensibilizzare le istituzioni”, conclude.