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Leucemia, dalla svolta imatinib al sogno della cura senza chemio

Roma, 19 lug. (Adnkronos Salute) – Ripercorre le tappe fondamentali della ricerca ventennale – tutta italiana – che con l’impiego di un inibitore delle tirosin-chinasi (Tki) ha portato al cambiamento radicale nel trattamento e nella prognosi dei pazienti con leucemia acuta linfoblastica Philadelphia-positiva (Lal Ph+) un articolo pubblicato recentemente sul ‘New England Journal of Medicine’ (Nejm) a firma di Robin Foà e Sabina Chiaretti dell’Università La Sapienza di Roma.

Quando, circa vent’anni fa, la leucemia acuta linfoblastica (Lal) associata a un’alterazione del cromosoma Philadelphia (Ph+) era ‘un male incurabile’ – ricorda l’ateneo – è stato sperimentato in Italia, per la prima volta, l’imatinib, primo di una nuova classe di farmaci antitumorali mirati, i Tki. Trattandosi di un approccio terapeutico rivoluzionario, nella prima sperimentazione furono arruolati solo pazienti anziani, di oltre 60 anni, che in molti casi avevano come cura solo terapie palliative. Dopo la somministrazione di una combinazione di imatinib e steroide, tutti i pazienti hanno ottenuto una remissione della malattia. Da allora questa strategia terapeutica iniziale basata solo su un Tki (più lo steroide) ha permesso di ottenere percentuali di risposta nel 94-100% dei pazienti adulti di tutte le età con Lal Ph+, senza ricorrere a chemioterapia sistemica (solo profilassi del sistema nervoso centrale) e con bassissima tossicità per i pazienti.

Negli anni la ricerca del gruppo coordinato da Foà, professore emerito di Ematologia della Sapienza, è andata avanti con l’obiettivo di arrivare alla guarigione dei pazienti affetti da questa patologia ematologica. Per questo motivo il Nejm ha chiesto allo specialista di descrivere i risultati più importanti raggiunti e pubblicati in questo ventennio sulla Lal Ph+ e come sia cambiata la storia naturale di questa malattia, una volta considerata la neoplasia ematologica più infausta. La review ‘Philadelphia Chromosome-Positive Acute Lymphoblastic Leukemia’, pubblicata il 23 giugno scorso, ripercorre appunto le tappe fondamentali di questo successo tutto italiano della ricerca medica.

Dopo la prima sperimentazione dell’imatinib in pazienti con Lal Ph+, si è progressivamente compreso come, per evitare una recidiva di malattia e migliorare le possibilità di guarigione, non bastasse una remissione ematologica, ma fosse essenziale ottenere uno stato di negatività della malattia residua minima (Mrd, Minimal residual disease).

Nel 2016 è iniziato il primo studio multicentrico italiano per pazienti adulti con Lal Ph+, senza limiti di età, nel quale al Tki è stato aggiunto blinatumomab, primo farmaco nella classe degli anticorpi bi-specifici BiTE, che agiscono stimolando una doppia reazione: da un lato il blinatumomab si lega alla proteina espressa dalle cellule leucemiche, dall’altro attiva nell’organismo una risposta immunologia. Questo approccio chemio-free, basato sulla combinazione di una terapia iniziale di induzione mirata su un Tki (dasatinib) e steroide, seguita da una strategia immunoterapica (blinatumomab, che attiva i linfociti T del paziente) come terapia di consolidamento, ha portato a remissioni nel 98% dei pazienti e, soprattutto, a remissioni molecolari fino all’80% dei casi. I risultati dello studio sono stati pubblicati il 22 ottobre 2020 sempre sul Nejm. Risultati incoraggianti si stanno ottenendo con il blinatumomab in un altro studio italiano per pazienti con Lal Ph- ed è in sviluppo una più maneggevole formulazione sottocute.

Per le Lal Ph+ è fondamentale ottenere una diagnosi molecolare precisa nella prima settimana dalla diagnosi, per iniziare tempestivamente il trattamento con un Tki. Inoltre, va effettuato uno studio molecolare sul profilo genetico del paziente e la possibile presenza di mutazioni che conferiscono resistenza ai trattamenti. Tutto questo richiede uno sforzo organizzativo molto impegnativo, ma essenziale per l’ottenimento dei risultati. Sono inoltre essenziali – si legge nella nota della Sapienza – gli studi cooperativi, presenti in diversi Paesi. Tra questi, in Italia si annoverano il Gimema per gli adulti e l’Aieop per i bambini. Nei protocolli Gimema per le Lal tutti i campioni dei pazienti arruolati sono centralizzati dal 1996 (alla diagnosi e nel follow-up) presso i laboratori di ematologia del Policlinico universitario Umberto I di Roma, per garantire che tutti i pazienti siano studiati in modo uniforme. Questo è possibile solo con personale qualificato e adeguatamente formato, che si accerti che tutti i complessi test necessari vengano adeguatamente effettuati in laboratori certificati.

L’approccio di induzione e consolidamento senza chemioterapia sistemica è stato particolarmente importante anche durante il primo picco della pandemia da Covid-19, perché ha permesso ai pazienti di ridurre i tempi di ospedalizzazione e soprattutto di non interrompere il trattamento, si rimarca nella nota.

Nel paragrafo conclusivo della review viene infine chiarito che gli studi attualmente in corso – in primis il nuovo protocollo Gimema aperto all’arruolamento – potranno stabilire in modo conclusivo se una quota di pazienti con Lal Ph+ potrà essere trattata in futuro senza chemioterapia sistemica e trapianto. “Un risultato impensabile anche solo pochi anni fa – commenta Foà – che mi porta a dire ai più giovani di credere nelle loro idee, soprattutto se originali, e di perseguirle con ostinazione. Anche per noi non fu facile all’inizio, ma questa storia tutta italiana ci insegna che spesso i sogni si realizzano”.